Platone nell’Apologia di Socrate racconta che quest’ultimo soleva dire: ”Non faccio nient’altro che andare in giro a persuadervi, giovani e vecchi, a capire che la vostra prima e maggiore preoccupazione non deve riguardare il vostro corpo o le vostre ricchezze ma la vostra anima, in modo che sia la più eccellente possibile”.
Socrate, come tutti sappiamo fu condannato a morte: era scomodo, gli si imputava di corrompere i giovani perché insegnava loro a scoprire la loro verità, dentro sé stessi, gli insegnava il cammino verso l’autonomia, cioè imparare a pensare con la propria testa e a confrontarsi col pensiero degli altri senza pretendere di avere una verità preconfezionata. Socrate è stato forse l’ultimo filosofo a vivere la filosofia come pratica di vita. E Socrate sarebbe oggi di nuovo condannato, magari relegato in una clinica psichiatrica sulla base di una diagnosi psichiatrica fondata sulle “certezze” offerte dal D.S.M. (Diagnostic and Statistical Manual), quel libretto degli orrori in base al quale chi ha più di tre delle seguenti caratteristiche (segue un elenco di una decina di comportamenti umani possibili) è bollato come “border line”, oppure “bipolare” oppure ancora vittima di un “episodio ipomaniacale”, e così via….
E già, perché pensare con la propria testa, cercare di capire il disagio di una persona che ci è davanti senza un manuale di riferimento, ci mette di fronte all’incertezza, ai dubbi che abbiamo sulla nostra intelligenza e non ci basta la laurea in psicologia o in medicina e i corsi che abbiam fatto di psichiatria o di psicoterapia per poterci permettere la libertà di sentire, intuire e pensare con la nostra ragione, il nostro corpo ed il nostro cuore; e scoprire semmai che quella persona che ci sta di fronte è unica ed unico è il momento che vive, e che il suo mondo interiore è un universo che non potrà mai essere decodificato soltanto in base ad una teoria formulata da chicchessia , fosse anche Freud, Jung o Lowen.
Insomma chi pretende da sé stesso il difficile compito di aiutare gli altri: medico, psicoterapeuta o counselor, è certamente necessario che si “formi” nelle materie psicologiche o mediche, ma è soprattutto auspicabile che la “formazione” si concretizzi in una mente aperta, interessata a scoprire, di sé stessi, e conseguentemente negli altri, il senso della propria esistenza. Di questo, si sa, si interessa la filosofia occidentale, orientale o di altre culture, non importa. Quel che importa è la voglia di scoprire, di andare oltre qualsiasi dogma o certezza. Aristotele dice che la “filosofia nasce dal dolore e dalla meraviglia”; ignorava Buddha e i suoi insegnamenti; ma, insieme, i due grandi ci offrono un messaggio che chi si interessa alla salute dell’anima (la psicologia, e i suoi operatori) farebbero bene a considerare con attenzione.
Il dolore, la condizione esistenziale per eccellenza, è in realtà il movente che induce l’uomo a cercare, interiormente, la causa del dolore stesso, anche se lo chiamiamo con altre parole: frustrazione, conflitto, nevrosi, disagio ecc. E spesso ci rivolgiamo a qualche operatore del settore per farci da guida nella scoperta delle cause del nostro dolore, se non altro perché non abbiamo tanto tempo, come il Buddha, per scoprirlo da soli. Ci imbattiamo allora in una selva di teorie sulle cause della nevrosi e sui meccanismi psicologici che ci fanno soffrire e con cui cerchiamo di trovar rimedio. Ognuna di queste teorie fornisce elementi per decifrare la nostra realtà esistenziale e sono certamente utilissime per trovare il significato dei nostri comportamenti, delle nostre emozioni o dei nostri pensieri. Ma spesso non ci offrono il senso della nostra vita. Il significato è, in quest’ambito, un’equivalenza tra un “qualcosa“ di noi e una spiegazione univoca, concettualmente evidente di quel qualcosa: è un’interpretazione, cioè una traduzione. La spiegazione, ovvero l’interpretazione (per la psicologia), non lasciano spazio all’equivoco, alla scoperta di nuovi significati sempre diversi per la stessa persona e per la stessa cosa; non accettano il mistero, quella “profondità ultraconcettuale” di cui parlava Jaspers. Ma è proprio qui, invece che abita il senso della nostra vita, che è aperto a sempre nuovi significati, a sempre nuove scoperte perché esplora un territorio infinito: quello della nostra anima. Lo disse per la prima volta, in Occidente, Eraclito: “Per quanto tu cammini, anche percorrendo ogni strada, non potrai raggiungere i confini dell’anima: tanto profondo è il suo logos”.
A questo, forse, si riferisce la “meraviglia” aristotelica come movente della filosofia.
Spesso noi psicologi abbiamo la presunzione di prescindere dalla ricerca filosofica, scimmiottando le scienze esatte che ci spiegano tutto su come funzionano le cose, ma nulla ci dicono del loro senso. Nulla ci dicono di quell’aspirazione all’infinito, all’indicibile, alla pienezza dell’essere, alla trascendenza che da sempre fanno parte della condizione umana. Spesso l’atteggiamento scientifico si comporta come quello stupido anatomista che dissezionando un corpo non trovò l’anima, quando cerca la proteina della paura o della frustrazione o dell’amore.
Se voglio aiutare una persona a vivere più felice, a superare il dolore non potrò prescindere dal cercare quell’inspiegabile contraddizione tra la nostra finitezza, come esseri umani con un finale scontato (il vivere per la morte di Heidegger) e l’infinitezza cui aspiriamo profondamente: cioè alla nostra dimensione spirituale.
Non crediamo, insieme a tanti che oggi indagano e lavorano nell’ambito delle psicologie transpersonali, che troveremo mai la nostra felicità a prescindere da questa nostra dimensione essenziale. Il fatto che non la possiamo spiegare, interpretare, significare è proprio la caratteristica ineludibile di questa dimensione “ultraconcettuale”. Ma possiamo riconoscerla ed aiutare glia altri a fare lo stesso: magari a partire dal dolore in un cammino di risalita della corrente dove non mi basterà mai scoprire il trauma infantile, il tratto caratteriale della tipologia di moda, le influenze ricevute da bambino, le idee limitate con cui mi definisco, le proiezioni, i desideri rimossi, e così via. Tutte queste belle cose della psicologia servono tanto, ma proprio tanto, ve lo assicuro! Eppure, come Faust, per non sprofondare nell’inferno, non dovrò dire mai “sta bene, mi basta!” , prima di arrivare alla Sorgente dove si annullano anche il mio dire, il mio capire, le mie interpretazione della realtà. Dove forse scoprirò di essere sempre stato felice e non lo sapevo… è solo un’ipotesi; ma che meraviglia sarebbe!