Le relazioni umane

Parte prima

Uno degli aspetti più importanti della nostra esistenza è la relazione con gli altri. E’ nella relazione con gli altri che troviamo l’ origine di tutti i nostri problemi. E’ nel rapporto con gli altri che ci alieniamo maggiormente da noi stessi. Dagli altri mi viene quel giudizio su me stesso che forma poi l’idea che io sono stupido o intelligente, buono o cattivo. E poi è negli altri che cerco il sostegno quando mi sento angosciato, male, triste o arrabbiato. Sicché attraverso la relazione con gli altri è possibile elaborare tutta la problematica esistenziale dell’uomo “
Antonio Blay: “SER: Curso de psicologia de la autorrealizaciòn”. Editorial INDIGO 1992

Prendo le mosse da questa citazione per svolgere una serie di mie considerazioni riguardo al tema.
L’analisi e la maniera con la quale intratteniamo i rapporti con gli altri possono rappresentare uno strumento importante di conoscenza di noi stessi e una opportunità di arricchirci e vivere il piacere della relazione umana.
Partiamo dal fatto che ognuno di noi vive la propria soggettività, cioè la propria identità, come qualcosa di molto più limitato rispetto alle reali potenzialità che abbiamo. Questa identità è solitamente dominata da un senso di inadeguatezza che, sebbene possa non essere reale, è tuttavia molto condizionante per il nostro esistere nel rapporto con gli altri. Blay chiama questa idea che abbiamo di noi “io idea” da contrapporre all’Io centrale che è invece la concreta coscienza della nostra identità positiva che è costituita da qualità essenziali che dovrebbero trovare espressione nella vita.
Ovviamente ognuno di noi tende ad occultare quell’idea negativa di se e cerca di “vendere” agli altri una immagine di noi migliore, solitamente l’opposto di quell’idea negativa in cui tuttavia crediamo profondamente. Se mi credo stupido o cattivo o incapace, cercherò di dimostrare agli altri che sono intelligente o buono o capace.
L’io idea, così brevemente descritto è una spina nel fianco che, se non la riconosciamo e neutralizziamo, ci affligge tutta la via e impedisce inoltre il dispiegamento delle reali capacità che potremmo esercitare.
Non abbiamo certo colpa per questa spina che ci siamo creati: da piccoli non avevamo una capacità critica e di autocoscienza per riconoscerci per quel che davvero siamo. Quest’idea di noi si forma come reazione a quei modelli di come si dovrebbe essere, secondo i “grandi”, modelli di fronte ai quali non ci sentiamo all’altezza e sentiamo di non poterli realizzare; da ciò sorge la nostra idea di inadeguatezza.
Quanto detto è tratto dal modello teorico di Blay.

Quel che segue sono mie considerazioni.

Innanzitutto poiché credo che ognuno di noi rappresenti un unicum costituito, è vero, da quelle qualità universali (Kant direbbe “trascendentali”) di intelligenza, affettività ed energia/potere; ma queste generiche qualità si coniugano in ognuno di noi in maniera diversa. Ognuno di noi è un insieme di qualità, potenzialità, limiti , molto peculiare e unico, e l’arte di vivere è, secondo me, un dispiegarsi di quest’unicità che è necessario riconoscere per poter operare le nostre scelte, il nostro stile di vita. Se non riconosciamo questa nostra specifica identità inseguiremo modelli che non ci riguardano. Cioè anche se ci allontaniamo da quei modelli che ci venivano mostrati nell’infanzia per soddisfare i nostri genitori e la società, ma cerchiamo di adeguarci ad altri modelli che ci sembrano migliori, quelli che ci indica il maestro di turno o una fede psicologica o spirituale o di altro genere, ebbene ci sentiremo sempre inadeguati. Non perché i modelli siano sbagliati, ma perché non potrò mai diventare come mi dicono gli altri che “si” dovrebbe essere. Nessuno può impormi il suo modello se non a costo di tradire me stesso. Ma il peggio è che sempre mi sentirò impotente di fronte a quei modelli: è come se, essendo gatto, volessi essere un buon cane da guardia, come quel leoncino di una storiella che allevato insieme ad altri docili animali e credendosi anche lui del branco, non realizza se stesso fin quando non riconosce di essere un leone.
Voler essere come gli altri, appartenere al branco, quand’anche fosse il branco dei maestri illuminati, genera impotenza, frustrazione e tutti gli sforzi per conoscere e praticare le maniere di essere del branco, mi distolgono dalla ricerca della mia unicità.
Heidegger parlava di vita inautentica, quella che si determina seguendo il “si” fa così o “tutti pensano così” “si dice” “si sa” eccetera. Non ci si rende conto che siamo inautentici anche quando il “si deve essere così” viene da fonti alte e autorevoli: saggi e dottrine supreme che tuttavia non mi conoscono e non sanno chi sono profondamente.
Ho già parlato in questo blog di quanto siano utili e proficui i saggi insegnamenti; ma essi non possono determinare tout court la mia maniera di essere, le mie scelte, il mio pensiero e il mio stile di vita.

Mi rendo conto che ancora non sia possibile comprendere come tutto questo abbia a che fare con la relazione con gli altri; è vero! Ma tutto ciò è una indispensabile premessa per poter intravedere una nuova maniera di rapportarmi agli altri.

Dicevamo dunque che per nascondere la mia inadeguatezza, cerco di mostrare (dimostrare) di essere secondo un nuovo modello ideale. Come se dicessimo: “guarda come sono buono o bravo, intelligente, potente ecc. sono dunque degno della tua accettazione, della tua ammirazione, del tuo amore”. Dalla mia maniera di essere, infatti, continuando a sentire come un bambino, credo che dipenda l’amore e l’attenzione che mi daranno gli altri; poiché tutti abbiamo bisogno di amore e attenzione positiva.
A questo punto i giochi sono fatti: gli altri non li vediamo più, proprio per niente. D’altra parte se non vedo e riconosco me stesso, come potrò vedere e riconoscere l’altro?
Fintanto che la convinzione sulla mia identità è un’idea tutto sommato negativa di me, un’idea che mi fa soffrire (per quanto la neghi e cerchi di dimostrare l’opposto), le relazioni saranno dominate dall’esigenza che gli altri mi riconoscano e mi apprezzino secondo l’ideale che nutro riguardo a me stesso. Gli altri si divideranno allora in due categorie: quelli che mi fanno sentire bene, apprezzato, quelli cioè che offrono lusinghe al mio “io ideale” al mio voler essere “superiore”; e quelli che mi fanno sentire “inferiore” proprio secondo la mia ’idea di me stesso. Secondo questo metro allora gli altri sono visati come buoni o cattivi, simpatici e antipatici e così via. Criticare gli altri, che è un qualcosa da cui credo nessuno sia immune, è proprio l’ammissione della mia presunta inferiorità che cerca di essere compensata da una operazione simbolica dove l’altro diventa inferiore e io mi sento un po’ al di sopra: superiore. Purtroppo tutta la vita sociale è determinata da questa dinamica dove l’altro farà lo stesso nei miei confronti.
Chi siamo noi e chi è l’altro, lo ignoriamo ambedue. La conoscenza di me stesso e dell’altro è impedita da questo macroscopico meccanismo di difesa. L’altro diventa un oggetto utile o disfunzionale al mio sentirmi bene.

Questo è il primo nodo da sciogliere. E lo posso sciogliere solo lavorando interiormente per conoscere chi sono, come sono e non solo accettando la mia maniera di essere ma ammirandola, apprezzandola, scoprendo sempre nuovi aspetti di questo mio universo personale.
Per far ciò devo mettere in questione tutto, l’etica sociale, la religione, il grande maestro Tal dei Tali, le aspettative degli altri e la psicologia. Solo come inciso, l’obiettivo della psicologia ordinaria, quella che si insegna nelle università, concepisce la salute mentale sulla base dell’adattabilità alla società alla quale si appartiene. Tradotto in soldoni: devi essere funzionale al sistema globalizzato nel quale chi comanda è il Mercato, l’organizzazione tecnologica globalizzata, gli anonimi grandi interessi mondiali pilotati da Washington e da ignoti direttori del mondo! Che orrore!

Allora se voglio cambiare, trasformare le mie relazioni, devo cominciare dalla relazione con me stesso. Questo è il primo passo.

Nei prossimi capitoli:

Il “vizio” di voler cambiare gli altri.

La scoperta della nostra individualità profonda non significa vedere solo la parte buona di noi, ma include vizi e virtù, potenzialità e limiti: è un insieme.

La relazione con gli altri come strumento per conoscere e arricchire me stesso

La comprensione e il dialogo