In questo articolo cercherò di ragionare sulla vicinanza, o meglio ancora sull’imprescindibile interdipendenza, tra il concetto di accettazione e quello di amore.
Cominciamo dall’amore: infinite pagine sono state scritte, infinite parole sono state pronunciate sul tema dell’amore, tanto, a mio avviso, da sconfinare in un qualcosa di scontato che non ci dice più nulla, ovvero che non stimola il nostro cuore risvegliandolo ogni volta a qualcosa di nuovo.
E già: anche il cuore come organo simbolico dell’amore è cosa scontata, più vicino all’industria del cioccolato che alla metafora di un qualcosa che nel nostro petto pulsa insieme alla vita e ne esprime una valenza affettiva, sentimentale.
L’amore, secondo me, dovrebbe invece sorprendere ogni volta che dentro di noi si avverte la sua vibrazione che è piacere di amare più ancora che essere amati, è il piacere di compiacersi per il bene della persona amata ; è la gioia di accogliere e prendersi cura di chi ha bisogno ; l’amore è capacità intuitiva di cogliere il bello in ogni cosa e goderne come di un’opera d’arte o un meraviglioso spettacolo della natura .
E resta dunque aperta per me la domanda: come fare a riattivare quella vibrazione di gioia, quel fuoco che da luce e calore, quella bellezza che dentro di noi si traduce in felicità; come fare, insomma, a vivere semplicemente, senza ostentazione e senza parolone impegnative, l’amore?
Chiedo allora aiuto al concetto e al vissuto dell’accettazione perché intuisco che vi è un legame più che stretto tra le due potenzialità umane: accettare e amare o amare e accettare.
Accettazione è parola che deriva dal verbo latino “accipio” che significa ricevere, prendere, accettare; ma anche accogliere e, in una ulteriore accezione (anche “accezione” viene da questo verbo), significa percepire, sentire, capire, venire a sapere. Mi piace considerare soprattutto quest’ultimo significato, quello cioè di percepire, comprendere qualcosa. L’accettazione è infatti una posizione mentale, un accettare, nel senso ordinario della parola, poiché si è compreso qualcosa e questa comprensione permette di accettare qualcuno o qualcosa.
Quel che invece mi pare riduttivo o fuorviante riguardo al senso dell’accettazione è considerarla come un atteggiamento di sottomissione al volere divino :“bisogna accettare ciò che Dio ci manda” cioè sopportare o sottomettervisi con rassegnazione. Come dire: per me sarebbe stato meglio qualcosa di diverso in cui speravo e che desidero ma, visto che Dio o altro principio superiore, mi impongono qualcosa di diverso, è bene e inevitabile che soggiaccia alla volontà divina, ma non senza un qualche rammarico o delusione.
L’accettazione invece può essere espressione di una postura di fronte alla vita di portata grandiosa: una rivoluzione totale del nostro modo di interpretare e vivere la vita. La definirei una questione ontologica, cioè una convinzione che può derivare soltanto da una profonda riflessione sul senso dell’Essere cioè della Realtà.
Uno dei più grandi filosofi presocratici, Parmenide, enunciava così la sua convinzione fondamentale: “l’essere è; il non essere non è”. Da studente di filosofia consideravo questa affermazione un’ovvietà alquanto stupida e certamente non ne comprendevo la portata. Successivamente, dopo aver letto su Spinoza, Kant e soprattutto aver studiato le opere del filosofo contemporaneo Emanuele Severino , ho potuto comprendere il senso rivoluzionario di quell’affermazione.
L’unica realtà non solo possibile ma necessaria è costituita da tutto ciò che è, cioè da tutto quel che esiste: cose, persone, galassie, pensieri, emozioni, l’ultimo trascurabile granello di sabbia di una spiaggia ecc.
Fichte , il primo filosofo idealista tedesco, riassume in questa semplice frase lì dove voglio arrivare con queste mie riflessioni:
“Qualsiasi cosa realmente esista, esiste per assoluta necessità; ed esiste necessariamente nella precisa forma in cui esiste. E’ impossibile che non esista o che esista in maniera diversa da come è.”
Se poi preferiamo una terminologia propria della tradizione orientale posso citare un passo di Ramesh Balsekar della tradizione vedanta.
Qualsiasi cosa avvenga, è un evento voluto dalla Sorgente, esattamente nel modo in cui deve avvenire secondo la Legge Cosmica. Nessuno “ fa” nulla. La vita è simile a un film scritto, prodotto e diretto dalla Coscienza. Ogni personaggio recita come vuole la Coscienza, e la Coscienza assiste allo spettacolo. Praticamente il film è già nel proiettore.”
Da “non più confusione” di Ramesh Balsekar Laris editrice
Qui si parla di Sorgente e di Coscienza, si potrebbe anche parlare direttamente di Dio e invocare scontatamente il “sia fatta la volontà di Dio”; si tratta di definizioni che sebbene possano implicare concezioni filosofiche molto diverse, comunque condividono il concetto che le cose avvengono non perché noi illusoriamente (sempre secondo questo modello concettuale) determiniamo con la nostra volontà la nostra maniera di essere e gli accadimenti che avvengono nel nostro mondo; ma piuttosto avvengono per volontà divina oppure perché il mondo e noi stessi siamo così come siamo e il mondo (= tutto quanto esiste) è così come è da sempre e per sempre. Come dicono molte tradizioni antiche e moderne, occidentali ( Bruno, Spinoza, Severino) e orientali il Mondo, cioè il Tutto, è increato, cioè nessuno lo ha mai creato ma è da sempre e per sempre.
Ma la nostra mente, ci ricorda Kant, non può pensare al di la delle sue proprie categorie, tra le quali quella del tempo. E queste visioni della realtà ultima, al di fuori del tempo, sono inconoscibili per la nostra mente. Forse i mistici o coloro che esperiscono certi stati meditativi intravedono qualcosa di questa dimensione che potremmo chiamare eterna o” l’eternità di tutte le cose”: quella che per usare una metafora del citato Ramesh è la bobina del film che è già tutta lì mentre noi immaginiamo che le cose siano create man mano che la pellicola è proiettata sullo schermo della nostra coscienza, dominata dall’idea di Tempo.
Che ne resta, allora, del nostro amato concetto di libero arbitrio ? E’ che esiste certamente ! Come nostra convinzione profonda ed è parte importante del film che è li da sempre e per sempre.
Ma insomma esisterà un Signore nell’alto dei Cieli, chiamato Dio, che crea qualcosa, come il mondo, ma avrebbe anche potuto non crearlo? Oppure è solo un amministratore di qualcosa di increato, eterno? Eterno non perché una volta cominciato non finisce più, quanto piuttosto perché non è mai cominciato: è li da sempre, al di fuori della dimensione temporale . Spinoza, ad esempio, vedeva Dio nella realtà di tutto quanto esiste ”Deus sive natura” (la natura = tutto quanto esiste) ma ancor di più Dio è visto nelle leggi, immutabili e anch’esse increate ,che reggono il funzionamento della natura stessa. E potrei continuare esplorando diverse visioni della cosiddetta Realtà Ultima.
Comunque sia, nessuno può avere l’ultima parola su questi temi, perché il linguaggio non può esprimere quel che è oltre la mente e a prescindere dalla mente; cioè il Tutto o Dio o la Natura includono la mente umana e si capisce facilmente che una parte non può comprendere, cioè contenere il tutto di cui è parte: come se un secchio d’acqua volesse comprendere, contenere, l’oceano.
E dunque cosa ci resta da comprendere riguardo al più che legittimo desiderio di conoscere, o meglio, riconoscere la realtà ultima e amarla come la cosa suprema, la più importante, quel che il linguaggio mistico, religioso o spirituale esprime come amore verso Dio, cioè amare la Realtà più grande e onnicomprensiva che possiamo concepire.
Eppure qualunque delle due visioni consideriamo: cioè quella di un Dio personale che ha una sua volontà che determina le cose, oppure una realtà suprema che si identifica con la Realtà di tutto quanto esiste come non creata ed eterna; ebbene le due visioni coincidono sul fatto che è stupido pensare di condizionare la volontà divina oppure che il film già girato da sempre possa cambiare secondo il desiderio di noi spettatori.
Ecco dunque il punto dove voglio arrivare. Accettare la realtà così come è, includendo gli altri che accetto così come sono, è l’unico atteggiamento intelligente che possiamo adottare. Credere che le cose possano cambiare secondo la nostra volontà che vorrebbe qualcosa di diverso da quel che si manifesta, significa pretendere che esista qualcosa che è nulla, ovvero che è solo nella nostra mente ma non corrisponde e non corrisponderà mai alla Realtà. E’ puro nihilismo cioè credere che sia possibile il nulla. Ma il nulla non esiste per definizione: la parola nulla implica il non essere !
Tutto questo è un qualcosa che ha a che fare con la comprensione: accettazione come comprensione. E l’amore dove lo mettiamo?
Non ci si può credere, ma proprio un anticristo interpretato spesso equivocamente ci offre la risposta per me più convincente: si tratta di Nietzsche che semplicemente afferma:
“Non voler nulla di diverso da quel che è, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l’eternità. Non solo sopportare ciò che è necessario, ma amarlo.”
E’ un’affermazione grandiosa !
Accettazione riguarda l’aspetto cognitivo e l’amore quello affettivo: c’è un’unità. Infatti non riuscirò ad amare (assurdo sforzarsi di amare) qualcosa che non accetto e anche al contrario non posso accettare qualcosa o qualcuno che avverso o odio o rifiuto.
Amare è desiderare quel che accade e non desiderare qualcosa di diverso. Il desiderio non è amore e se diciamo di amare a condizione che la realtà sia come io desidero siamo fuori strada. Secondo me, il vero, unico amore è verso la realtà, cioè verso qualcosa e non verso il niente delle nostre fantasie/desideri, che non sono realtà.
Ovviamente speriamo e speriamo secondo il nostro vantaggio futuro e tifiamo perché le cose avvengano in un certo modo e le persone siano in un certo modo che io desidero e sento funzionali al mio benessere; ma poi l’l’amore accettazione come abito, abituale cioè, comporterebbe che io possa assistere a quel che accade, conoscere l’altro, senza il pregiudizio aspettativa che animavano le mie speranze. Riconosco in quel che accade e così come accade come necessità, come l’unica realtà possibile e se il mio amore si dirige sempre più verso la realtà e non verso i miei speranzosi desideri, finirò per scegliere la monogamia con la Realtà senza qualificarla come bene o male, bello o brutto, utile o inutile. Così pure verso l’altro: se amo la Realtà, amerò “realmente” anche l’altro così come è, e non a condizione che sia in un certo modo o che cambi qualcosa di se perché io lo possa accettare.
E smetto di lottare contro i mulini a vento come don Chisciotte , credendo di raggiungere gli oggetti dei miei desideri: il mio desiderio diventa il desiderio che la realtà sia esattamene come è e gli accadimenti accadano esattamente come accadono. Questo è l’amor fati di cui ci parla Nietzsche
L’accettazione, allora, diventa amore, si ricompone l’unità intelletto/affettività e siamo più integri.
E se questo non accade? E se fosse soltanto un ulteriore desiderio che non si realizza? Stiamo a guardare il film: lì c’è già tutto e lo sapremo.